Quello
straniero sperduto nell’immenso aeroporto di New York deve in qualche
modo sopravvivere e si batte con dolce e inesauribile tenacia contro i
lacci e laccioli della burocrazia statunitense. Questa la metafora
geniale di Steven Spielberg per mostrarci- spesso toccando le corde
della poesia- nel suo film “ The terminal “ la situazione di
solitudine e sofferenza dei tanti immigrati alla ricerca di
un’accoglienza e di spazi di libertà da parte di quei paesi ricchi,
talvolta ostili se non indifferenti verso le loro aspirazioni.
La trama sposa i temi della commedia surreale, eppure il regista si è
ispirato alla vicenda autentica di un indiano che da tre lustri vive a
Parigi.
Il turista qualsiasi Viktor Navorsky giunge all’aeroporto di New York
da una immaginaria nazione dell’est europeo ma gli viene impedito di
uscirne per il fatto che nel suo paese di provenienza è improvvisamente
scoppiata una rivoluzione. Secondo il rigido responsabile della stazione
aeroportuale Dixon il povero turista è in tale frangente un
apolide che non può accedere nella grande metropoli e ad un tempo non
può nemmeno ripartire per il suo paese sconvolto da quegli
avvenimenti.. L’uomo cerca di spiegarsi, di far valere le sue ragioni
senza mai trascendere ma sforzandosi di comprendere le ragioni dei suoi
interlocutori. La lingua parlata da Viktor è incomprensibile in primo
luogo per chi lo ascolta con sufficienza e gli oppone con monotona
ripetitività le norme del regolamento. Ora il turista è solo e deve
trovare il modo di sbarcare il lunario all’interno di quella enorme e
caotica stazione dove si incrociano frettolosamente uomini di tutte le
razze. Animato da una volontà incrollabile ecco il buffo avvitarsi di
quell’essere umano di fatto abbandonato da tutti. All’inizio
affamato cerca qualche spicciolo ma la colorata moltitudine che lo
circonda lo respinge con diffidenza , se non con acredine. Viktor ò, al
contrario, aperto e disponibile verso i problemi degli altri, non si
piange addosso e, infine, ha tanta voglia di fare. Riesce a imparare
l’inglese e trova perfino un lavoro all’interno dell’aeroporto.
Dixon tenta di agevolargli la fuga dalla grande stazione sapendo che
fuori di lì altri poteri cercheranno di stritolarlo. Viktor non cadrà
nella trappola e resterà in quel luogo anche perché le solidarietà
intorno a lui crescono. Egli per i tanti immigrati che svolgono lavori
umili nella stazione diviene man mano un simbolo di uomo libero che si
batte con mezzi non violenti contro quelli che comandano. Dopo
mesi la rivoluzione nel paese di origine del protagonista viene
debellata e lui potrebbe rimpatriare ma ancora una volta quell’uomo
afferma la sua indipendenza. A New York deve entrare per rispettare un
desiderio del padre defunto. Ci andrà con l’aiuto delle tante persone
che lo amano e nonostante le resistenze di quei burocrati
dell’aeroporto inveleniti dal comportamento coerente dell’uomo.
Spielberg ci ha raccontato forse una favola ma ha colto il segno. Egli
utilizza con maestria un linguaggio che ricorda, per la sua efficace
incidenza ironica sui piccoli fatti della vita quotidiana, quello del
grande regista-comico francese Jacques Tati. Vi aggiunge reminiscenze di
quella commedia sentimentale e inguaribilmente ottimistica degli
anni 30 che ha per capostipite Frank Capra. La recitazione degli attori
è una delle forze trainanti del film. Tom Hanks impersona Viktor con
disincantata semplicità. L’attore si cala nel personaggio fino in
fondo, ci rende il suo goffo modo di incedere, i suoi sguardi attoniti,
la sua testardaggine nel difendersi da chi lo perseguita. Il suo
avversario Dixon è interpretato dal poliedrico regista-attore Stanley
Tucci. Egli tratteggia magistralmente quest’uomo forse non cattivo ma
che vuole affermare il suo potere impugnando il regolamento quasi fosse
un Vangelo sull’indifeso, ma anche “ribelle”, Viktor. Al confronto
appare sbiadita la recitazione della pur affascinante Catherine Zeta
Jones nel ruolo di una hostess che ha una fugace storia d’amore con il
protagonista.
Un film riuscito da non perdere
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