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FINALMENTE NATALE

di Giuseppe Trabace

Era dicembre, Massimo e Gianna erano lì in quella stanza. Faceva freddo in quella casa, la piccola stufa elettrica non riscaldava abbastanza il monocamera in cui vivevano nel popolare quartiere Prenestino di Roma. Erano fratello e sorella, avevano ventitre e ventuno anni. Orfani da tempo erano molto legati tra loro anche se il ragazzo si atteggiava un po’ troppo a padre-tutore della fanciulla. Gianna studiava fisica all’Università e nelle ore serali si industriava a fare la baby sitter a basso costo. Massimo era barista in un pub e riusciva a stento a mantenere la sorella e sé stesso. Una vita così, senza troppi grilli per il capo. Qualche volta però lui perdeva la pazienza, come in quel giorno freddo a pochi giorni dal Natale . Gianna paziente, un po’ seriamente e un po’ per scherzo, si industriava a tirarlo sù, a dirgli che prima o poi sarebbero usciti da quel buco, che lui così biondo e delicato avrebbe trovato una bellissima ragazza con cui trascorrere l’esistenza, mentre la sua “vecchia “ sorella si sarebbe fatta da parte. Massimo era troppo teso, uscì quasi precipitosamente di casa. Era il tardo pomeriggio, il buio era già calato e dalle finestre situate al piano terra si vedevano già gli alberi di Natale addobbati e da cui spuntavano tante lucette multicolori. Massimo, ora più calmo, pensava alla sua infanzia, alle povere ma liete feste della Natività. In quella piccola casa che allora abitavano nel giorno della vigilia la mamma non si staccava dai fornelli dove le frittelle allegramente saltavano nell’olio bollente mentre il papà cercava di abbellire anche con carte colorate quell’albero così piccino. Loro due, fratello e sorella,  facevano finta di niente ma cercavano di individuare dove fossero quei piccoli regali che chissachì avrebbe posto sotto l’albero a mezzanotte. Forse senza saperlo in quei giorni erano felici, papà e mamma non litigavano più, loro due cercavano di fare meno chiasso e quasi si affannavano per compiere piccoli lavori domestici. Poi…… la vita continuava a scorrere con i suoi tanti problemi.

Massimo, preso dai suoi ricordi, era giunto a lunghi passi  a piazza San Giovanni in Laterano, era finito nel traffico caotico dell’ora di rientro. Fece un balzo per non essere investito da una grossa moto e d’un tratto vide un bambino sui dieci- dodici anni accucciato in un angolo del marciapiede con il corpo scosso da lunghi brividi. Si fermò, il ragazzo lo guardò di sottecchi continuando a tremare, poi a voce alta esclamò “ Che vai cercanno? Nun te conosco e nun t’ho chiesto gnente. Aria! “ Stava andando via quando vide il ragazzo accasciarsi sul selciato. Accorse, lo prese in braccio, non pesava molto, decise di portarlo al Pronto Soccorso dell’Ospedale San Giovanni. Non c’era mai entrato, l’impressione fu tanta. Un tanfo di medicina, sanitari in camice bianco passavano veloci, in sala di attesa alcune persone si lamentavano con toni più o meno alti e attorno a loro parenti  li consolavano ovvero imprecavano per i tempi di attesa. Il ragazzo non riprendeva conoscenza, finalmente un’infermiere se ne interessò e provvide a trasportarlo in una stanzetta posta a qualche decina di metri. Dopo circa mezz’ora un tipo smilzo, probabilmente un medico, lo informò che il ragazzo, ancora privo di sensi, era affetto da polmonite e che occorreva ricoverarlo. Quell’uomo,  infastidito per il fatto che Massimo non era un parente e non sapeva nulla di  quel paziente, andò via di furia senza salutare. Nel frattempo il ragazzo, pallido come un morto, veniva trasferito in barella al reparto. Nessuno gli chiese più nulla e Massimo non sapeva che fare. Ad un tratto sbirciò l’orologio, fece un balzo, era quasi mezzanotte. A casa non c’era il telefono e Gianna era certamente in ansia per lui. Di corsa prese al volo l’ultimo mezzo pubblico.

 La sorella era in piedi ad aspettarlo, il suo sguardo non fu amichevole. Lui d’un fiato le raccontò tutto. Restò perplessa, chi avrebbe badato a quel ragazzino senza nome? Il fratello sembrò indifferente, si gettò sul letto  e cadde in un sonno profondo. Non erano le quattro del mattino che Massimo si svegliò di colpo, pensava a quella giovane vita sperduta nel grande Ospedale, al Natale solitario che avrebbe trascorso senza un volto amico, senza una parola di conforto. Erano le sei e Gianna, già in piedi, preparava il caffè in quel gelido mattino. Anche lei aveva dormito poco e male, le sembrava di essere responsabile per quello che era successo. Non parlarono tra loro. Massimo all’uscita dal lavoro tornò in Ospedale, entrò in reparto e quasi subito adocchiò in una grande stanza il volto ora arrossato del ragazzo. Si avvicinò, per fortuna aveva ripreso i sensi ma si vedeva che la febbre incalzava. “ Come stai? Te serve quarcosa? “Il ragazzo non lo riconobbe e rispose “ Sto malaccio, ma tu chi sei? Che te manda mi madre? “ Massimo gli spiegò tutto, poi gli chiese il nome. “ Sò Salvatore Aniello, l’ho già detto a quelli dell’Ospedale stamattina., mi madre abita a Monterotondo, io vengo a Roma a lavorà, faccio l’apprendista di un elettrauto vicino a via Merulana.” Lo tranquillizzò per la madre, l’avrebbe cercata lui. Andò via. A casa Gianna subito si offrì di andare il mattino dopo a Monterotondo, lui la guardò con affetto. Quella madre viveva in una specie di spelonca, circondata da tre bimbi piccoli. Le disse subito che non si poteva muovere con “ quei tre guai “, il padre non c’era e probabilmente non c’era mai stato. Un viaggio inutile. I due fratelli erano sconsolati quella sera. Domani era la vigilia e Salvatore era lì come un oggetto inutile dimenticato. Stabilirono che gli sarebbero stati vicini.

 Il mattino dopo Massimo chiese un anticipo al padrone del bar ed acquistò un paio di scarpe da tennis bianche con striscie azzurre. Nel pomeriggio fratello e sorella andarono a trovare Salvatore. Ora era sfebbrato ma il suo volto aveva un’espressione corrucciata. Disse “ Mi madre nun s’è vista, certo so che è difficile ma, porca paletta, ve pare che posso resta quì a Natale a fa li funghi in sto fondo de letto? Er medico poi dice che ce devo restà nartra settimana “ Gianna con quella dolcezza che era innata in lei gli accomodò le coperte e bisbigliò “ A regazzì ce semo noi quà co’ te, nun semo mica fantasmi. Parlamo, giocamo a carte fino a mezzanotte. A stò posto permettono de restà fino a tardi in occasione della santa vigilia “. Eccoli loro tre a giocare a scopetta. Intorno a quel letto alcuni malati di giovane età assistevano a quell’innocente svago facendo il tifo per quel Salvatore che ora aveva il volto disteso, perfino sorridente. Le ore trascorsero, Massimo, anche lui ,aveva perso quell’espressione triste che si portava appresso e sfornava le tante barzellette imparate dai buontemponi del bar dove lavorava. Arrivò mezzanotte, una piccola cerimonia per portare Gesù bambino nel presepe situato nel corridoio del reparto, lo sguardo melanconico di tutti tre verso quelle immagini della Sacra Famiglia……  Poi finalmente i regali per Salvatore che forse non ne aveva mai avuti. Oltre alle scarpe, Gianna tirò fuori dalla sua borsetta una radiolina portatile che fu subito sintonizzata sui canti natalizi . Infine un portantino dal volto burbero si presentò improvvisamente ed a tutti i ragazzi ricoverati distribuì un piccolo regalo. A Salvatore toccò una sciarpa rossa che Massimo gli sistemò attorno al collo. Era ora di andare. Salvatore abbracciò i due dicendo “ A regà sete stati na bomba, mò però non m’abbandonate “ Gianna e Massimo non dissero nulla ma il loro sguardo fu la migliore risposta. Uscirono da quel luogo di dolore sollevati. Per strada una pioggia gelata cadde su di loro ma non se ne accorsero. Dopo tanti anni anonimi o tristi avevano trascorso un Natale da ricordare.

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