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VIVERE CON IL DOLORE FISICO

 Quando 2 anni fa constatai di essere paralizzata, di dover dipendere dagli altri e di avere forti dolori,  il mio primo pensiero andò ai 3 figli. Inizialmente li lasciai  sperare che avrei potuto camminare e restai  in ospedale per 7 mesi per tentare tutte le cure, fisioterapiche comprese. Quando la sentenza fu: encefalo mielite disseminata  non  curabile, ritornai a casa e la mia vita cambiò. Pensai subito di non pesare sui figli che avevano già sofferto per la presenza del padre, malato di sclerosi a placche. In una famiglia quando uno soffre gli altri membri ne sono influenzati. Mio marito, curato a casa, ha portato molti disagi ed io ho cercato di assisterlo fino alla fine. Morì infatti sereno nel nostro letto matrimoniale. Portare il lutto per la  persona amata, significa pensare  al vuoto che ha lasciato ed organizzarsi un’altra esistenza. Solo la fede in Dio, che ci ha promesso la vita eterna e la sicurezza di rivederlo, dà la forza di continuare. Per fortuna i figli non abitano più con me, ma vengono a trovarmi e mi telefonano. Specialmente Maria Vittoria mi chiama ogni sera e ci scambiamo i nostri pensieri, raccontandoci le novità della giornata! Ho cercato di essere serena e di non affliggerli con i miei dolori. Sapere di essere una disabile per sempre è una grande sofferenza, perché oltre ad avere delle limitazioni e dipendere da chi ti aiuta, origina la percezione della diversità del proprio essere nel mondo rispetto agli altri. Si acquista consapevolezza della propria condizione, si entra nella coscienza del dolore che diventa una componente dell’esistere e tocca allontanarsi dalla vita attiva.
Bisognerebbe che gli altri considerassero l’handicappato come uno “diversamente dotato” e giungessero alla convinzione che la menomazione è considerata tale in base ad un termine di paragone e  all’impostazione della società in cui viviamo. Basterebbe invece valutare le sue doti specifiche, le sue caratteristiche, ma anche le sue debolezze e capire che tutti, anche coloro che valgono perché producono ricchezza, hanno dei limiti! In questo modo la nostra società si arricchirebbe: ciascuno di noi troverebbe un luogo dove avere un ruolo per poter misurare la propria utilità e sentirsela riconoscere non per pietà, ma per un giusto discernimento dei suoi valori. In questo modo le menomazioni  dovrebbero essere secondarie. Vivere il dolore  é personale e  nella malattia si esprime in base alle proprie caratteristiche. Per me Dio  si è rivelato vicino ed io ho bisogno di Lui , Lo invoco continuamente perché spesso considero la mia sofferenza superiore a quella degli  altri e solo la fede riesce a cambiare la gestione del mio dolore e di conseguenza la sua sopportazione. Ho bisogno che i sacerdoti  vengano da me ed essi  si sentono in dovere di lasciare le proprie attività per starmi vicino.  Lo  fanno con uno stile particolare: quello della consolazione, che comporta la comprensione del male e quello della condivisione, che mi solleva dal peso della disperazione. La mia malattia, la racconto, la mostro per poterla meglio tollerare, perché abbia un senso per gli altri e diventi  più accettabile e meno dolorosa per me.
In ospedale, il dolore del vicino di letto si avverte anche se non parla: è un silenzio che ci rende partecipi del suo stato di sofferenza. Avviene così che  quella dell’altro diventa anche la mia, nasce così in me  la compassione  e sono pronta ad aiutarlo. Bisogna estirpare l’indifferenza. Ho conosciuto persone anziane parcheggiate in corsia, perché essendo impossibilitate a muoversi  non potevano tornare a casa. Questo non deve più accadere: bisogna assegnare loro un ruolo che, anche se non è produttivo, abbia un senso. Per esempio  se sono messe in rapporto con i bambini e con i giovani, diventano la memoria storica della famiglia e di un’epoca.
Quando ero sana cercavo cose complicate e lontane, non mi accorgevo di quello che avevo: così facendo perdevo l’essenziale cercando l’inutile. La fatica di andare avanti non si può misurare con quella di un altro malato, perché una medesima condizione non produce sempre un dolore della stessa entità. Le donne, per esempio, sopportano più degli uomini! Convivere con i dolori è  la situazione più difficile della mia malattia. Il Primario  di Neurologia  ha provato molte cure rischiose e dolorose per migliorare il mio stato di  salute. Con 4 sedute di plasmaferesi ho rimosso le gambe che erano paralizzate; ho dovuto però interrompere dopo l’ottava seduta  perché rischiavo l’infarto. E’ stato inutile anche l’inserimento di un elettrodo spinale epidurale posteriore D3 e D4  che mi ha raddoppiato i dolori. Anche le dosi massicce di cortisone  non sono riuscite a ridurre la sofferenza, né a farmi camminare. Ora sono sotto terapia del dolore  e così posso  scrivere articoli, tenere conferenze e riempire il mio sito in internet:  http://www.mariacaterina.net di articoli ed anche di mie fotografie.
Vorrei tanto vivere la vita come un’esperienza ed avere nel futuro la certezza di avere meno sofferenze.
Al mattino i dolori sono tremendi! Spesso piango e le lacrime, il linguaggio privilegiato del dolore, mi bagnano il viso; comunico così uno stato d’animo che sfugge alle parole. Un linguaggio, che è preghiera per chiedere a Dio di darmi la forza a sopportare ed ai presenti intorno a me di aiutarmi. Piangere è un modo di parlare dell’ammalato e induce chi gli sta vicino ad abbracciarlo, consolarlo ed accarezzarlo. Quando il dolore è oltre ogni sopportazione apro la bocca e come una disperata urlo in silenzio per non disturbare i vicini: infatti non mi rivolgo a nessuno. Credo che la mia faccia abbia la stessa grinta del quadro di Edvard Munch “Grido” (Oslo. Galleria Nazionale). L’urlo non è comunicazione verbale, ma è un’espressione drammatica, è la sofferenza che esplode impotente ed incapace di capire. Il dolore va eliminato, allontanato, gli si deve dichiarare guerra. Ci sono momenti in cui ne ho paura. Cerco  di allontanarlo o risolverlo fino a desiderare la morte per mettere un termine a questo strazio. Ho sentito molti, in ospedale, invocarla! L'inquietudine ha bisogno di pace. Perciò tengo spesso gli occhi chiusi, così posso entrare in me stessa e trovare il Signore a cui chiedo aiuto e.... lo ricevo!
Per riconciliarmi con la vita ricorro all’ascolto  della musica, specialmente quella sinfonica e quella sacra. Mi addormento la sera ascoltandola, infatti si coniuga bene con il dolore e attraverso le sue variazioni e le straordinarie modulazioni  esprime ampie armonie. La sofferenza attiva  fa nascere bisogni che prima non percepivo, fa emergere le paure di subire un danno al proprio corpo e nello stesso tempo evidenzia la sua resistenza. In questo senso mostra un potere conoscitivo molto importante, proprio perché muta le percezioni e mi rivela i fondamenti del mio essere donna: essere pronta a sopportare. Ho cercato di far molto per rendere vivibile la mia esistenza, sempre aiutata sia dai medici che da Lilli, la mia badante, ma specialmente dai miei familiari ed amici. Essi mi  tengono molta compagnia, oltre a svolgere per me i servizi e le spese di cui ho bisogno. Sentirsi circondati dalla solidarietà e dalla simpatia del prossimo rende tranquilli. Gli ammalati hanno bisogno di una estrema delicatezza e solo chi sa amare può immedesimarsi in loro. Specialmente le donne hanno una capacità istintiva e trovano sempre  il modo giusto di avvicinarsi mettendosi in perfetta sintonia con chi soffre. Quelle credenti possono alleviare meglio  il dolore più straziante, perché hanno una vita interiore illuminata dal Signore.
Soffrire al buio è tremendo, l’ho constatato tra i pazienti dell’ospedale, ma se si sentono nella luce della fede e capiscono che Dio è venuto a visitarli attraverso le sofferenze riescono a dare ad esse un senso ed un valore. E’ però necessario  sentirselo ripetere ed un credente può trasmettere  alla mente di chi soffre la rassegnazione. Le sue  parole hanno un  benefico effetto verso chi ha  bisogno di  speranza, serenità, solidarietà e di amicizia. Non si deve temere di dire agli altri quello che Dio ci ispira.  So che é difficile, ma se non lo facciamo è perché la nostra sensibilità è qualche volta carente, perché non sappiamo immedesimarci nel dolore degli altri e partecipare alla loro solitudine ed alla loro sofferenza.
Dobbiamo attivarci  per il nostro prossimo sofferente e non solo per noi stessi, così le preoccupazioni personali  diventano superflue, in quanto facciamo  qualcosa di utile agli altri.  Io stessa, pure con i dolori,  posso aiutare  coloro che hanno bisogno, perché so cosa vuol dire soffrire. Mi sono sempre fidata di Dio e sono convinta che Lui sa qual’è il mio bene, perciò mi abbandono al Suo volere, ma allo stesso tempo lotto anche per trovare una cura che mi attutisca il dolore.  Prendo tutti i giorni i farmaci che mi ha prescritto il Professore della Terapia del dolore. Sono contenta perché con questa cura soffro meno. E’ importante avere vicino un medico che incoraggi e comprenda cosa vuole il paziente dalla vita presente, ben diversa da quella precedente, quando  c’era la salute! Lenire il dolore è la missione di chi sta vicino a chi soffre ed è anche un  insegnamento utile  per lui . La malattia non ha barriere  invalicabili, ciascuno di noi  vi ha convissuto, perciò bisogna impiegare tutti i mezzi per guarirla. La ricerca medica dovrebbe avanzare. Ogni sforzo per strappare le persone dalla sofferenza è teologicamente corretto.
In questo periodo cerco di recuperare la serenità. Data la mia situazione, sto molto a casa, ascolto ciò che il mio cuore sussurra e cerco di capire quale progetto nuovo di esistenza vuole il Signore da me. E’ nel silenzio che Dio si rivela ed io scopro il vero senso della preghiera. C’è in essa una bellezza che può esprimersi anche nel lamento e nel pianto. Vi sono molti santi che con il loro soffrire hanno dato esempi di coerenza ed eticità. Prima di ammalarmi non potevo capirlo immersa com’ero nella vita cittadina piena di rumori, di appuntamenti, di pratiche da sbrigare e di incarichi da svolgere. Ora riesco a decifrare il linguaggio del silenzio che è quello della fede e come Giobbe, a cui mi sento molto vicina mi scandalizzo e grido di fronte al  dolore inutile ed ingiusto che si è abbattuto su di me. Come lui pongo la domanda: ”Perché la mano di Dio mi ha percossa!” (Gb19,21) ed esprimo un desiderio:”Oh, potessi tornare com’ero ai mesi di un tempo, ai giorni in cui Dio mi proteggeva” (Gb 29,2). Infine dico con lui: ”Comprendo che puoi tutto/ e che nessuna cosa è impossibile a te/...Ascoltami e io parlerò,/io ti interrogherò e tu istruiscimi”. (Gb 42, 2-4).  Infine spero intensamente di ricevere la sua stessa ricompensa: “Dio ristabilì Giobbe  nello stato di prima, avendo egli pregato per i suoi amici; accrebbe anzi il doppio quanto Giobbe aveva posseduto” (Gb 42,10).
Bisogna arrivare alla serenità vista  come raggiungimento di una maniera d’esistere che ha senso anche per gli altri, un modo di sentire la vita vivibile  fatta  di cose piccole, di sensazioni personali che si legano al proprio passato. Non è guidata dalla strategia del successo, ma è una costruzione che si compie momento per momento nel coraggio della coerenza, sentendo dentro di  sé l’approvazione della coscienza. Per fare ciò è necessario aver fiducia in sè  stessi per distribuire la serenità agli altri, dando così ciò che si è e non quello che si possiede. Quando si è ammalati nasce in noi una nuova gerarchia dei valori basati sul significato della vita e sulla sua difesa. Alcune volte si riesce anche ad accettare il dolore come fonte di conoscenza. Se poi una persona crede in Dio  c’è un nuovo modo di stare nel mondo e di  orientare la vita. Il dolore con  Gesù è caricato di senso, capovolge la logica umana e porta all’altruismo. 
Si percepisce la spinta ad entrare nel dolore dell’altro, di condividerlo, di alleviarlo offrendogli la propria presenza. Ho deciso di dedicare la vita che mi rimane a lenire il dolore altrui, voglio  aiutare coloro  che  durante la malattia si deprimono e non cercano di combatterla. Sono in grado di trasmettere la  speranza,  che racchiudo in me,  così il dolore  diventa un legame, un’offerta, un dono a Dio. Dedicarmi  a quelli che soffrono, lenire il loro dolore, consolarlo, condividerlo  rafforza il mio carattere e mi sostiene nell’accettare la mia infermità.
La mia disposizione naturale di oggi è legata alle esperienze passate ed in particolare a quelle dell’adolescenza che hanno condizionato la condotta successiva. Se mi comporto in questo modo, dipende dall’educazione ricevuta  da mia madre. Ella mi ha abituata ad accettare il sacrificio anche quando non ero disposta ad accoglierlo; così sono diventata tenace, sviluppo una grande forza di volontà ed un comportamento di coesistenza con gli altri, mantengo uno stile di vita che mi permette di accettare la malattia e le sue conseguenze, cerco infine di aiutare coloro che mi chiedono aiuto!