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LA SPERANZA PER IL MALATO |
La
parabola del paralitico (Lc 5,17-26) è di insegnamento per tutti noi
malati. Gli amici del disabile sperano per lui la salute del corpo e fanno
di tutto perché sia vicino a Gesù, tanto da calarlo dal tetto.
Trovandosi di fronte al paralitico Cristo invece manifesta il suo
potere perdonandogli i peccati e solo dopo lo guarisce,
dicendogli di alzarsi, camminare ed andare a casa sua con il lettuccio. In
questo brano evangelico possiamo sperimentare come l’incontro con
Dio ci rimette in piedi, ci ridona fiducia, dà senso alla nostra vita e
ci fa gustare quella pienezza di gioia che Egli, sa concedere.
La speranza non è una pura ipotesi, non è una proiezione o
estrapolazione soggettiva, è invece l’attesa senza tentennamenti.
E’ l’anticipazione di qualcosa che sicuramente accadrà, è la
sicurezza della fedeltà di Dio verso le promesse future, è insita nel
cuore dell’ammalato ed è nata e ramificata in lui con la
preghiera. Quando Gesù parla a chi soffre, questi non può rispondere con
le sole sue forze, ma con la speranza di essere aiutato a
contraccambiare il Suo amore. Questa virtù è infatti l’attesa
fiduciosa del Suo soccorso, perché Cristo è fedele alle Sue
promesse ed è misericordioso. Lo afferma nella beatitudine:“beati gli
afflitti, perché saranno consolati”(Mt 5,4). Il grido di speranza
dell’ammalato è la tensione verso un futuro migliore e la
persistenza dell’infermità lo induce a pregare continuamente per
la guarigione. Vivere una vita da infermo è difficile, ma è
possibile solo per le promesse che Dio ha fatto a ciascuno di noi.
L’attesa quindi diventa una dimensione insostituibile dell’esistenza.
Sperare, per noi, è fidarci di Dio senza chiederci il perché della
situazione, con la certezza di essere in buone mani, avendo fondato
sul Suo amore e non sulle nostre capacità la riuscita della
nostra esistenza. La speranza appartiene al Signore perché è collocata
in Lui. Noi ammalati siamo aiutati da questa virtù e la sentiamo
come gloria di Dio ed è entrata nel nostro cuore attraverso lo Spirito
Santo come una grazia abituale. E’ capace infatti, con la sola nostra
opzione fondamentale, di darci serenità, producendo una piena
autocomunicazione tra Dio e noi. E’ una forza operativa stabile, è quel
tendere con tutto il cuore all’unione definitiva col Signore nella
pienezza del suo Regno (cf Fil 3,10-14). In essa, infatti, noi abbiamo
come un’ancora della nostra vita, sicura e salda, la quale penetra
fin nell’interno del velo del santuario, dove Gesù è entrato per noi
come precursore” (Eb 6,19-20). E’ una delle caratteristiche
qualificanti dell’esistenza di noi malati, ma sovente è minacciata dal
benessere inteso come soddisfazione del presente e dal nostro tentativo di
sostituirci a Dio, mentre essa esige di non considerarci mai
arrivati. La questione dominante di tale prospettiva è quella della
sofferenza, della morte e della possibilità di ricevere le promesse di
Dio solo nell’aldilà. Il libro di Giobbe ci agevola a capire
questi problemi ed aiuta a rassegnarci davanti
all’incomprensibilità del disegno divino. |
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