Inizialmente
ho esitato a scrivere
queste
mie riflessioni, poi ho deciso di farlo, perché bisogna pensare per tempo
alla fine e prepararsi adeguatamente. Alcuni mi fanno capire di esserne
terrorizzati, di non volerne né parlare, né pensarci, eppure la morte
insieme alla nascita fanno parte della vita. Questo è un classico
pregiudizio, un segno di immaturità da superare, è importante impostare
in tempo un discorso con se stessi. La realtà va guardata in faccia con
un consapevole impegno! La nostra società esige che il moribondo ignori
spesso la sua morte. Molti di coloro che l’attorniano, dal medico ai
familiari cercano di nascondergli il proprio stato, facendogli perdere il
suo ruolo di protagonista. Il trapasso non deve mettere in imbarazzo
coloro che sopravvivono. Anzi i parenti hanno bisogno di piangere i loro
cari e se vogliono portare il lutto. Quando morì mio marito, ritornai ad
insegnare vestita di nero. Il Preside dopo pochi giorni, mi fece chiamare
per dirmi che non dovevo vestirmi così perché intristivo i miei alunni
(liceali). Siamo giunti ad un accordo che a scuola sarei venuta indossando
abiti bianchi e neri! Il fatto che il decesso sia cancellato dai discorsi
e dai mezzi di comunicazione appartiene al modello della società
industriale dove domina il benessere ed il consumismo. La morte è una
presenza misteriosa e per alcuni inquietante ed angosciosa, tanto da
generare in loro la così detta “ansia esistenziale”. Nella nostra
società consumistica l’uomo è sordo, respinge il trapasso e non vuol
prendere posizione nei suoi confronti. L’ansia di produrre emargina i
vecchi ed i disabili. Il fatto concreto del trapasso viene delegato a
particolari istituzioni, come ospedali, case di riposo, agenzie funebri.
La tendenza fondamentale è di giungere a far scomparire il decesso dalla
società rendendolo culturalmente e socialmente invisibile. Il funerale di
stato tenta da una parte di sottrarre la morte all’incapacità delle
singole persone di far fronte ad un confronto diretto con questo triste
evento e dall’altra di renderla uno spettacolo. Parlando del decesso
cerco di utilizzare le risorse dei miei studi e le esperienze della mia
vita per trattare con serenità una situazione che capiterà a tutti, me
compresa. Voglio of- frire spunti di meditazione, di riflessione sperando
di giovare alle persone e farle crescere, preparandole, con responsabilità
al distacco. Faccio appello a quelle più sensibili sfidandole a vincere
la paura per vivere meglio! Non si deve collocare la morte al di là della
vita, ma in essa come una presenza capace di darle un senso.
Nel contesto di questa riflessione è interessante una considerazione sul
dolore cronico che quando la precede, viene vista come una liberazione.
Alcune situazioni possono soffocare la percezione della sofferenza. Quando
scrivo sono talmente impegnata in questa attività intellettuale che
riesco a tollerare i dolori anche quelli violenti. Il male non è solo
percepito, ma anche sofferto, è una reazione ed una manifestazione
emotiva di quanto ho vissuto e vivo. C’è una grande dipendenza emotiva,
ma riesco a sopportarlo perché gli do un significato positivo: lo offro
per gli altri. Avendo la fede diventa per me un mezzo di redenzione e
santificazione. Con ciò sono sempre in attesa che la terapia del dolore
dia i suoi effetti insieme alla psicoterapia a cui mi sono sottoposta:
”la speranza è l’ultima a morire”! Il dolore fisico e la paralisi
che mi sono stati diagnosticati cronici, hanno cambiato il mio
comportamento e lo stile di vita, ho aperto me stessa a nuove relazioni,
ho assunto la responsabilità della mia esistenza in vista della fine e
sto cercando di promuovere la crescita intellettiva. Essendomi messa alla
sequela di Cristo, non posso non domandarmi qual’è l’atteggiamento
cristiano di fronte alla morte e cercare di capire che cosa opererà Dio
in me. Sono sicura che la risposta la troverò in Gesù, che mi farà
capire la vita e la morte e nella Madonna. Recito ogni sera il Rosario e
quando dico:”Santa Maria, Madre di Dio, prega per noi peccatori adesso e
nell’ora della nostra morte, amen” sono sicura che l’avrò sempre
vicina per morire in pace, cosciente del passo che farò.
Vorrei vivere in prima persona il distacco da coloro a cui voglio bene e
rimanere nella loro memoria lasciando la testimonianza di una vita
dignitosa e serena e di alcuni scritti in cui ho espresso il mio pensiero.
E’ importante la sopravvivenza del proprio “io”dopo la morte per
lasciare un ricordo. Non voglio sprecare il mio tempo, per questo cerco,
pur disabile, di occuparmi delle adozioni a distanza dei bambini indiani,
di star vicina, come priora alle consorelle, di aiutare le persone
bisognose e di scrivere articoli, dove traspare la mia fiducia in Dio.
“Signore dammi la forza di sopportare quello che non si può cambiare,
il coraggio di lasciare quello che bisogna abbandonare e l’intelligenza
di capire l’una e l’altra situazione” (preghiera della tradizione
Sufi).
Desidererei tanto morire come quando la sera mi addormento perché ho
sonno, avrò finito la lotta della vita e verrà per me il tempo del
riposo tra le braccia di Dio. Sono contraria all’<accanimento
terapeutico>, favorevole all’<espianto dei miei organi> se
potranno essere utilizzati . Trovo giusto che il medico dica la verità al
paziente, specialmente quando si avvicina la fine, perché si prepari,
senza però togliergli la speranza. Infatti sia l’una che l’altra
possono avere effetti buoni, dare un nuovo senso alla vita ed anche
prolungarla: tutto è possibile! Tra noi ed i defunti rimane un vincolo,
un legame, sia con i parenti e sia con le persone conosciute in vita. Il
cristianesimo ci richiama ad una vita post-mortale, una consolazione per
sopportare meglio la paura del trapasso individuale. Chi crede ad una
ricongiunzione con coloro che ha amato in terra è sereno, sa infatti che
l’anima del defunto è con Dio.
Molte persone rimuovono la morte o la vivono con ripugnanza, come un tabù
di cui non se ne deve parlare, sperando, in questo modo, di allontanarla,
perché è un distacco, sia quando colpisce noi, sia un nostro familiare o
un amico. Per coloro che sono affezionati ai beni terreni, inseguono il
successo, la ricchezza ed il potere, l’idea del sopraggiungere della
fine è disperante in quanto mette un termine a tutto quello a cui sono
attaccati.
E’ importante che nessuno resti solo al momento del decesso. I moribondi
devono sentire l’affetto ed il calore umano dell’altro espresso
con una carezza o con una stretta di mano. La paura della morte per molti,
dice Freud, è un’angosciosa separazione. Per la psicanalisi: il nostro
inconscio non può concepire la morte perché non ha alcuna
rappresentazione arcaica infantile, di solito viene immaginata per gli
altri non per noi. In privato le persone non ne vogliono chiacchierare,
per timore; mentre quando muore una persona importante, sia tra di loro
che in pubblico, sia sui giornali che alla radio ed alla televisione,
molti si occupano del “defunto” e tutti ne parlano bene o male! Si
moltiplicano i discorsi ed i dibattiti per conoscere, comprendere e
raccontare la sua vita e come è finita.
C’è un ramo della medicina che studia le cause determinanti la morte e
le manifestazioni fisico-chimiche che l’accompagnano:“la tanatologia”.
Essa fa un recupero culturale del decesso, opponendo al rifiuto ed alla
negazione, il ritorno alla consapevolezza restituendone il valore, dando
ai moribondi la serenità. E’ un lavoro interdisciplinare di cui si
discute nei vari convegni. Se si vive l’esistenza in pieno, si è pronti
a prepararsi con tranquillità ed in pace alla fine della vita, avendole
dedicata un po’ d’attenzione. Non si può però delegare solo alla
scienza il compito di affrontare il problema della morte, in quanto non la
potrà mai vincere, né sostituirsi alla persona nella gestione della
propria esistenza ed anche della sua conclusione. Il morire deve essere
inteso come una parte del vivere, una riappropriazione della dimensione
personale dell’esistenza, un riaprire la soglia della coscienza agli
interrogativi fondamentali. Si deve pensare alla fine senza inquinare la
vita quotidiana. Chi crede ha un’esistenza serena, perché spera nella
Vita Eterna ! Se siamo coinvolti in un’esperienza religiosa la morte ci
deve interessare perché è una risposta ad una Parola detta da Dio agli
uomini nella storia. Dobbiamo rivolgerci, per capire come il decesso può
costituire un elemento strutturale del Dialogo con Dio. La Bibbia illumina
il significato della morte all’interno del dialogo di salvezza tra Dio,
l’uomo e tutto ciò che è scritto appare in funzione del rapporto di
alleanza che si approfondisce con il progressivo realizzarsi della storia
della salvezza, che culmina in Cristo.
La “teologia della morte”, come riflessioni alla luce della fede,
dovrebbe essere più studiata e capita, anche da chi non crede. I teologi
la considerano come un “adempimento”, infatti al momento della fine la
persona dà il volto definitivo alla sua esistenza autentica:
un’apertura a Dio ed agli altri, è quell’ ”l’opzione finale”da
cui dipende la sua sorte eterna. Il decesso corona le scelte
dell’esistenza. Gli sforzi delle persone di interrogarsi e di rispondere
sulla loro fine e tutto ciò che l’accompagna e la segue, sono
funzionali al loro rapporto con Dio. Nel dialogo della salvezza il Signore
diventa il Dio della persona, affinché essa possa essere la persona del
Signore. La “buona notizia” portata Gesù ha per oggetto anche la
nostra fine, un atto della grazia di Dio che salva (cf 2Tm 1,10; 1Co
15,3).
La morte è stata inflitta a Gesù, ad un profeta libero il cui linguaggio
disturbava, ma è stato anche un decesso assunto in modo tale da cambiarne
il suo significato. Il Messia ha deciso di morire da servitore e non da
capo, realizzando, appoggiandosi al Padre, l’atto di fede perfetto.
Inoltre la Sua disponibilità di dare la vita per gli altri per amore,
porta al culmine il dono di sè. Come per Cristo la morte salvifica
illuminava la Sua esistenza e prendeva senso da essa, così oggi per il
cristiano questo ricordo lo aiuta a convertirsi, invertendo la rotta della
sua vita e nascondendola con “Cristo in Dio” (Col 3,3). Il credente
sperimenta la vittoria di Gesù sulla morte, partecipando lui stesso alla
morte di Cristo; questo concetto è svolto ampiamente in Rm 6,2ss. La fede
in Gesù non libera dalla morte, ma dà la certezza che non si “morrà
in eterno”(Gv 11,26).
La nostra unione a Gesù è già la risurrezione che ci porta al di là
della morte. Il “Regno di Dio” non è da cercare in un futuro lontano,
ma è “già” qui se saremo capaci di amare i fratelli. Chi non ama
rimane nella morte” (1Gv 3,14). Esistenzialmente l’accento va sul
“già”, piuttosto che sul ”non ancora”. L’opera essenziale di
Cristo è un duello con la morte, Egli ha assunto, morendo per noi, la
nostra morte e l’ha definitivamente sconfitta. Il Cristiano è chiamato
a morire con Gesù e passare con Lui dalla morte alla vita: questo finire
e risorgere si vive nel battesimo e nell’esistenza quotidiana. Nella
“teologia della morte” l’intera realtà umana è vista e voluta a
partire dall’avvenimento di Gesù. A quella luce essa appare in se
stessa come morte, perché è unicamente quello che è avvenuto in Cristo
che merita il nome di vita (Gv 5,24). “Io sono la resurrezione e la
vita; chi crede in me anche se è morto vivrà” (Gv 11,25). Il rapporto
con Cristo è il criterio di lettura di tutta la realtà. La fine
biologica diventa quel punto dove maggiormente si manifesta ciò che
l’uomo è: se senza Dio, la morte, se con il Signore, la resurrezione.
“Sia che viviamo,sia che moriamo, siamo dunque del Signore” (Rm 14,8).
La persona che muore e quella che risorge, è la stessa persona, c’è
una continuità. Il decesso naturale è un ricongiungimento con Dio.
L’anima, per i credenti, va in Cielo ed il corpo rimane in terra fino
alla Parusia, dove ci sarà la resurrezione dei corpi, perciò non si
muore nella totalità. “La nostra patria.è nei cieli e di là
aspettiamo il salvatore Gesù Cristo il quale trasfigurerà il nostro
misero corpo per conformarlo al suo corpo glorioso, in virtù al potere
che ha di sottomettere a se tutte le cose”(Fil.3,20-21). Il trapasso è
un passaggio, addirittura una nascita. I santi vengono festeggiati
nell’anniversario della loro morte. Il giorno viene chiamato “dies
natalis”, il giorno natalizio. Sarebbe utile una riflessione sulla fine,
invece alcuni la considerano “un dramma”. Vi è però un consenso
generale su quello che riguarda il destino eterno dell’uomo, proprio
perché nel nostro intimo vogliamo essere immortali. La morte non è la
fine totale, ma solo l’avere che si trasforma in essere.Alla sua luce
nasce una particolare meditazione sulla vita e ne rivela il senso. Essa
diventa un soffio
(cf Sal 39,5 ss;89,48; 90,4-12; Gb 14,1-12; Sap 2,2-5).
Il morire è un concetto oltre che un fatto, ognuno di noi sa che deve
cessare di vivere, ma molti ne hanno paura e la vincono utilizzando i
mezzi che la ragione mette a disposizione dell’intelletto. Non bisogna
però aggravare l’avvicinarsi della morte con l’idea del Paradiso e
dell’Inferno, solo come un’espressione di premio e di castigo. La
persona che durante la sua vita è stata vicina a Dio ed anche quella che
ha vissuto rettamente scavalca i limiti apparenti della sua caducità
terrena e si proietta nell’ immortalità morendo serenamente,
affrontando un decesso indolore, perché diventa una chiamata, un
compimento.
Vorrei terminare con le parole di Montale: “Non so ancora con
quanta serenità accoglierò la morte. Mi spiace che a cose fatte
difficilmente potrò informarvi”.
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