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Una giornata d'autunno

La pagina di Giuseppe Trabace
nostro redattore


UN GIORNO, UNA VITA
di Giuseppe Trabace

Teresa passeggiava stancamente sotto una fitta pioggia di autunno. Aveva 28 anni e viveva sola in un paesino dell’Abruzzo posto a circa 500 metri di altezza che si affacciava su una piccola vallata pietrosa con pochi alberi. I suoi genitori erano morti quasi di seguito quando aveva diciotto anni e le avevano lasciato una vecchia casa con un piccolo giardino fiorito. Lei aveva dovuto sopravvivere impiegandosi come cassiera presso il bar sito nella piazza principale del paese. La gente che continuamente entrava in quel bar non era forse cattiva. Qualcuno anzi chiacchierava amichevolmente con lei. Qualcun altro, anche di non giovane età, notava questa giovane donna sola  e senza molti scrupoli cercava di coinvolgerla in discorsi equivoci o improvvisava battute volgari con diretti riferimenti ad amori ed amorazzi della gente del posto. In questi casi lei reagiva nervosamente ma le cattive abitudini non muoiono mai!  Gli anni si susseguirono monotoni, lei si era rinchiusa sempre più nel suo guscio, ormai rispondeva a monosillabi alle domande della gente e non intratteneva rapporti con nessuno.. Soleva fantasticare nel suo piccolo giardino. Immaginava una vita diversa,  avventurosa, piena di avvenimenti che le davano una precaria sferzata di vitalità. In realtà era profondamente delusa, il luogo in cui viveva la soffocava. Non osava nemmeno pensare ad un vincolo con un uomo e neppure ad un’amicizia.
Poi… quel giorno qualcosa cambiò. Era ottobre, un pomeriggio piovoso, e lei tornava da una lunga camminata quando nei pressi della sua casa vide un piccolo agglomerato di persone che discutevano animatamente attorno ad un fuori strada. Erano gente di fuori e si contrastavano tra loro  su dove fosse una certa via dei Glicini. Era a destra o a sinistra? Ognuno diceva la sua. Avevano uno spiccato accento siciliano e una gran voglia di questionare come volessero sfogare una tensione che era in loro. Teresa sembrò uscire dalla sua apatia e spiegò loro che quella via era lì a pochi passi.. La guardarono sorpresi, poi la ringraziarono con una gentilezza spontanea che la colpì. Ad un tratto tra quelle persone si fece largo un uomo sui 30 anni dai tratti marcati e dai capelli biondo cenere che con voce allegra disse “ basta cò tutti sti complimenti alla signorina! Ma lo sapete che sete proprio azzeccusi?” Una signora sui sessant’anni ricoperta da uno scialle marrone gli diede una spinta scherzosa e ribattè “l’educazione non basta mai. Perchè sei beddu non significa che a da fari sempre u pagliaccio. Scusatelo signorina chisto è mi figghio Manuele che la vocca non la tini mai chiusa. Stiamo cercando dove si trova la nuova casa di questa mia benedetta famigghia e voi ci siete stata d’aiuto”. Ora Teresa  sorrideva e Manuele stava al gioco. Improvvisò un balletto sulle punte e atteggiò il volto ad un’espressione ebete. Si salutarono con la promessa di rivedersi.
Al bar già dal giorno successivo si parlava tanto della famiglia Contursi. Erano siciliani della provincia di Catania. Il capo famiglia era impiegato alle poste. La moglie casalinga ma molto brava a ricamare. I figli erano 5, due fratelli e tre sorelle dai 15 anni in su. Teresa ascoltava interessata ma non fece alcun commento. Venne la domenica ed in prima mattinata entrò nel bar un signore alto e grosso che lei riconobbe come il padre di quella famiglia siciliana. Lui aveva un carattere più introverso e la salutò con un cenno del capo anche se gli occhi esprimevano una sicura cordialità. Poco dopo entrò nel locale Manuele con la solita aria scanzonata, si mise a chiacchierare con il padre ma quasi sfacciatamente il suo volto era girato verso di lei. Improvvisamente si staccò dal genitore e avvicinandosi alla cassa le sorrise e le disse “ ma come mai un fiore come lei vive in questa caverna tra fumi e fiumi del caffelatte?” Teresa non potè  trattenersi dal ridere mentre gli occhi dei paesani che oziavano nel bar li guardavano sorpresi ma anche con una certa rustica diffidenza. 

Tutta la sua freddezza si era sciolta per quell’estraneo invadente?   
Lei resse quegli sguardi e conversò con l’uomo con una spigliatezza che non si conosceva. Da quel giorno lui tornò spesso in quel bar. Le raccontava della sua Sicilia, di quel sole bruciante che a lui però non dava fastidio, di quel mare trasparente con le sue acque calde e vellutate, dei profumi della natura. Teresa lo guardava mentre raccontava, quasi si specchiava in quegli occhi di un verde cupo penetranti, era ammaliata. Qualche solerte paesano non mancò di dirle che quella persona bighellonava tutto il giorno, che era senza arte né parte, che la famiglia dava fastidio ai vicini con grida e strepiti, che insomma lo lasciasse perdere….Teresa, incurante, fece in modo di avvicinarsi a quella famiglia. Certo erano chiassosi, a volte volgari, ma tra di loro esisteva un vincolo forte, quasi ferino, che la sorprese e un po’ la mise in apprensione. Mamma Ida le spiegò che Manuele era stato scapestrato da ragazzo, aveva studiato poco anche se leggeva libri e giornali in continuazione. Ora con il suo diploma voleva diventare maestro e questo lavoro farlo seriamente senza grilli per la testa. Le fece vedere la sua minuscola stanza ricolma di libri. Quello era un Manuele diverso  da quello da lei conosciuto. Quando lo rivide accettò l’invito, in passato più volte rifiutato, ad uscire insieme per un cinema. In quel locale, mentre scorrevano velocemente le sequenze di un film giallo, i due si scambiavano occhiate complici e sembrò naturale che la mano di lui scivolasse tra le mani di lei. Uscirono, era una notte stellata di fine giugno senza luna. Si incamminarono per un viale deserto alla periferia del paese e si baciarono con una non trattenuta passione senza parlare. Silenziosamente si lasciarono. Per qualche giorno lui non tornò al bar.
Teresa l’aspettò chiusa nella sua sofferenza. Un addetto alla biglietteria dei treni la informò, con il viso tagliato da un sorriso beffardo, che il “ signor Contursi Manuele da qualche giorno alle tre del pomeriggio prende un biglietto di andata e ritorno per L’Aquila. Saranno affari di cuore? “. Lei restò, come di consueto, indifferente ma il suo corpo fu attraversato da un brivido.
Dopo due settimane lui tornò al bar.
Era imbarazzato, pareva nasconderle qualcosa, non scherzava più. Esitante le chiese di vedersi nel tardo pomeriggio. Teresa d’istinto avrebbe voluto respingerlo, ma improvvisamente comprese che dovevano chiarirsi, Si incontrarono in quel viale periferico. Le parole di lei furono dure e scostanti. Lui non aveva per niente considerato i suoi sentimenti, anzi probabilmente ne aveva riso con quei bei tomi dei clienti del bar. Manuele  tacque, il suo sguardo era triste, il suo bel volto sembrava come invecchiato precocemente.  Teresa iniziò a piangere sommessamente su quella storia abortita sul nascere. Lui non riuscì più a trattenersi e con voce arrochita esplose “sei ingiusta. Io da giorni mi tormento perché non sono sicuro di poterti dare un futuro sereno. A 31 anni non ho un lavoro stabile. Mio padre quasi ogni santo giorno mi rimprovera di essere uno scioperato. In questi giorni sono stato all’Aquila per frequentare un corso di aggiornamento per i futuri maestri. Se sono arrivato a questo punto la colpa è mia certamente. Ho sbagliato a volerti ma non sono quel mostro che tu dici!”.
Lei rimase come in trance. Era pentita per quelle parole amare appena dette. Lui appariva svuotato senza più forza. Camminarono al buio come naufraghi  per molto tempo. Ora Teresa aveva freddo. Erano i primi di luglio ma quella sera un vento di tramontana tagliava la faccia. Manuele, quasi con timore, le coprì le spalle col suo vecchio pullover.
Lei gli sorrise incerta, lui rispose sfiorandole la guancia con un bacio.
Si volevano. bene, avrebbero tentato insieme di affrontare una vita non facile.
Una speranza c’era.


SPERANZE
di Giuseppe Trabace

Quella notte Franco fece un sogno. Era sdraiato su un prato fiorito, circondato da erba bagnata molto alta e da minuscole margherite, e ammirava sua moglie Erminia che, giovanissima, correva verso di lui leggera con un bel sorriso sul volto e gli diceva con civetteria:" lo vedi che bel posto che ho trovato, musone che non sei altro! Chiamiamo gli altri e facciamo un bella merenda sul prato". Si svegliò, quasi felice dopo tanto tempo, e pensò che sua moglie, scomparsa da qualche anno, aveva voluto forse mandargli per la prima volta un messaggio di speranza come a dirgli: " esci dalla tua solitudine, rientra nella vita, forse qualcuno ha ancora bisogno di te!". Era vero, lui, che da poco aveva superato i settant’anni, rimasto vedovo, si era estraniato da tutto e da tutti. Viveva in quella casa con l’unico figlio sposato, la nuora e due nipotini maschi. I rapporti giornalieri con i soli familiari rimastigli erano formali, se non distaccati, e questo perché lui, ormai stanco di tutto, lo aveva voluto. Ricordava ancora che il giorno del quarto compleanno del nipotino Gigetto prima si era chiuso a chiave nella sua stanza, e poi alle invocazioni del bambino che lo invitava con la sua vocetta acuta a partecipare ad una festicciola con altri piccoli invitati, non aveva saputo fare altro che grugnire:" le feste non mi piacciono, divertiti con i tuoi compagni". Sbuffò il vecchio dopo quel ricordo. Pensò che forse aveva fatto bene ad infischiarsene di tutto e di tutti, in fondo non si trattava che di un sogno. Era presto quella mattina e Franco uscì di soppiatto nel corridoio, quasi a voler saggiare il terreno. D’improvviso due piccole furie gli saltarono quasi sui piedi ma a lui non diedero quel fastidio provato tante volte. Si affacciò in cucina e vide la nuora Carla che premurosamente ed in gran fretta preparava la colazione per marito e figli. Tutti lo guardarono sorpresi, abituati come erano a non vederlo quasi mai uscire dalla sua stanza di primo mattino. Carla, dopo un’esitazione gli disse" Avete appetito?, vi preparo subito il vostro tè", ma lui un po’ accigliato rifiutò. Ora avvolto dal fumo della sigaretta si guardava la scena. L’espressione dolce e un po’ tesa di suo figlio Gianni, quella un po’ timorosa della nuora ed, infine, le facce allegre dei nipoti. Ma la giornata di lavoro iniziava e con frettolosi saluti tutti i familiari di Franco dopo pochi minuti sparirono dalla vecchia casa, lasciando Franco solo. Lui si aggirò per le stanze deserte e sentì una sensazione opprimente di vuoto. Uscì, doveva fare qualcosa. Si diresse al mercatino del quartiere e, quasi senza rendersene conto, acquistò cibarie e del buon vino. Poi si fermò in una libreria e scelse due libri di favole e racconti per bambini. Tornò a casa e per tutto il giorno restò in cucina a preparare gustosi intingoli. Tanti anni prima la domenica usava pasticciare in cucina. Un aiuto, poi, glielo diedero le ricette di cucina che la povera Erminia aveva lasciate trascritte su un taccuino e che lui aveva conservato per tanto tempo in un cassetto del comò in camera da letto. Era pomeriggio inoltrato quando Gianni il figlio rientrò per primo. Dalla sua stanza sentì che diceva allegramente" Carla dove sei? ma che hai combinato con tutti questi buoni mangiarini, ma insomma è la festa di qualcuno?" Nessuno gli rispose. Poi Gianni vide la sala da pranzo apparecchiata riccamente come a Natale e non ci capì più niente. Entrò in casa in quel momento Carla con i figlioletti ed anche lei, vista la situazione, guardò sorpresa il marito mentre i bambini le mostrarono trionfalmente i bei libri trovati sul comodino della loro stanza. Il vecchio apparve d’improvviso alle spalle dei suoi cari e con vigoria proclamò " ma quando ce la mangiamo tutto questo ben di Dio? Su piccoli e grandi di questa casa, sediamoci a tavola e facciamola finita!" La serata trascorse in allegria. Dopo tante nubi, un po’ di sereno ci voleva in quella piccola famiglia. Quella notte il vecchio sognò di essere cuoco in un ristorante con tanti clienti affamati.             



SOPRAVVIVERE
di Giuseppe Trabace

Giulio viveva così. Qualche lavoretto umile e non troppo pesante, elemosine raccattate sulla porta della parrocchia di primo mattino,un bicchiere di vino scadente che gli veniva offerto con ruvida cortesia dal proprietario di una minuscola trattoria, un pagliericcio per la notte sotto un capannone abbandonato. Trascinava l'esistenza con pacata rassegnazione in una zona periferica di Roma. Aveva quasi 56 anni ed era venuto nella capitale da qualche tempo quando era morta la vecchia madre, l’ultimo affetto rimastogli. Per la salute malferma ed un certa apatia non aveva mai lavorato stabilmente. Era sopravvissuto fino a circa 50 anni con la modesta pensione della madre, senza lamentarsi ma anche senza gioire. Un intervallo piacevole nella sua vita era stato l’amore per Sara, una ragazza del suo paese. Tutto era durato qualche mese, poi lei non ne volle più sapere di quel tipo "taciturno e che non gli andava di faticare". Adesso camminava tutto il giorno per le strade di quella Roma sporca e opaca, arrancava senza meta attraversando piazze, minuscoli giardini pubblici ricoperti di immondizia, cortili chiassosi per le grida dei bambini. Era questo il suo modo di gridare al mondo "ci sono anch’io e, per la miseria, voglio vedere che succede!". Nelle sue passeggiate solitarie osservava silenziosamente l'umanità. Tanta gente che affannosamente tirava la vita, bambini che in un anelito di libertà scorazzavano felici all’uscita delle scuole, coppie giovani che si abbracciavano con tenera dolcezza e coniugi attempati che litigavano con rabbia repressa, anziani che avanzavano con fatica spesso borbottando contro quel Governo infame, ladruncoli lesti a scippare persone indifese o distratte, immigrati di tante provenienze, di cui alcuni disposti a tutto pur di rimanere nel "paradiso Italia". Non era in fondo un gran spettacolo da vedere , ma a lui bastava. Poi, un giorno di settembre sotto un sole quasi canicolare nel primo pomeriggio ebbe quell’incontro. Camminava per una stradina deserta, una cicala cantava solitaria e lui, pur colpito dalla luce abbacinante di quel sole, intravide una donna non giovanissima, con i fianchi un po’ abbondanti ma con un volto che non poteva dimenticare, quello della sua donna, Sara. Restò immobile come paralizzato. La donna continuò il suo cammino, anzi sembrò allungare il passo. Riavutosi dalla sorpresa lui le corse dietro e quando l’ebbe raggiunta con voce affannosa le disse:"sono Giulio non lo vedi? Ma che ce l’hai ancora sù con me?" La donna lo guardò stranita, non mostrò alcuna emozione e poi, d’impeto, gli fece:"ma lei chi è? Io non la conosco, la prego di lasciarmi in pace". Il tono della voce era diverso da quello di Sara e l’accento era romanesco ma Giulio non se ne preoccupò più di tanto. In un attimo pensò che quella era la sua Sara, anche dopo tanti anni aveva del rancore verso lui, ma questo non importava, sarebbero tornati insieme ad ogni costo! La donna si allontanò sempre più velocemente e Giulio la seguì ad una certa distanza. Ad un tratto lei si infilò in un portoncino e ne uscì dopo qualche minuto accompagnata da una ragazzina di circa dieci anni che le somigliava parecchio. Si avvicinò con circospezione e sentì distintamente la bimba che diceva:"mamma non voglio andare dai nonni, guardiamo le vetrine ti prego". Giulio vide svanire di un colpo le sue illusioni e pensò che lei avesse finto di non riconoscerlo perché ormai aveva altri legami, anche se certamente lo amava ancora. Gli calò addosso una nuvola nera di disperazione e la donna sparì dalla sua vista. Nei giorni seguenti cadde in uno stato di torpore doloroso. Ormai tutto ciò che lo circondava non lo interessava più, si cibava di qualche tozzo di pane e passava quasi tutta la giornata disteso su quel pagliericcio. Passarono lunghi mesi, poi una mattina rigida di gennaio lo trovarono morto dinanzi la porta della parrocchia. Tra le mani stringeva una vecchia cartolina del suo paese di origine. 
Non gli era rimasto altro della sua povera vita.


INCONTRI
di GIUSEPPE TRABACE

Si incontrarono per caso nella galleria al centro di Milano. All’interno di una famosa libreria lei Giovanna era alla ricerca di un saggio sulla fame nel mondo. Studentessa di sociologia all’università cercava di approfondire un tema che la interessava da anni. Figlia di contadini calabresi saliti a Milano per lavoro negli anni 60 sentiva nel sangue una diversità da tutto quello che la circondava, da quel frenetico via vai di una metropoli che pareva spesso indifferente alle sofferenze di tanti esseri umani.
Si soffermò su una pubblicazione in lingua inglese che trattava delle ferite che il colonialismo del secolo scorso aveva inferto alle popolazioni dell’Africa ed all’improvviso lui le rivolse la parola... Le chiese in inglese se avesse bisogno di aiuto per altre ricerche. I capelli biondo cenere di Giovanna gli avevano fatto credere che lei fosse straniera. Lei sorrise sorpresa e colse subito la gentile disponibilità di quell’uomo non più giovane. Poi quell’uomo fu chiamato da un’occhialuta signora per dare delucidazioni ad una pallida suorina su una biografia di Padre Pio e Giovanna comprese, forse con un pizzico di delusione, che la gentilezza di quell’uomo era solo professionale.
Quel saggio però la interessava e si diresse alla cassa per acquistarlo quando un frettoloso signore più che robusto la investì facendole cadere il libro per terra. Non si scusò nemmeno e lei indispettita lo invitò ad una maggiore attenzione. L’uomo della libreria accorse, raccolse il libro da terra e chiese scusa con voce dolce per quel cliente così dozzinale. Giovanna lo ringraziò e frettolosamente pagò e andò via. Era vicina già a via Montenapoleone quando quell’uomo un po’ in affanno la raggiunse e le porse gli occhiali da sole da lei dimenticati sul bancone della cassa. La voce di quell’uomo era calma e amichevole, il suo aspetto gradevole, gli anni l’avevano segnato poco.
Giovanna ora lo guardava pensando che anche nella giostra impazzita di quella città immensa potevano ancora esistere persone così. Lui notò quell’occhiata e si presentò con il nome di Guido Farolfi. Lei era intimidita e stava salutandolo quando lui con una sicurezza che la sorprese le disse: "signorina ma perchè non ci vediamo una sera di queste? Lei che si interessa dei problemi dell’umanità vorrà pur analizzare questo vecchietto dell’epoca dei dinosauri". Lei rise, quell’uomo le piaceva quasi a pelle e non rifiutò l’invito.
Si videro in una sera stellata in un bar di via Magenta... Sorseggiarono un cognac francese ma non ne sentirono neppure il gusto. Erano troppo intenti ad indagare uno nella vita dell’altro. Lei raccontò del suo non dialogo con genitori e fratelli, della sua vita divisa tra lo studio e la ricerca di qualche lavoretto per tirare avanti, dei suoi ideali forse troppo astratti per pensare di realizzarli. Guido non aveva una vita migliore. Il lavoro non gli dispiaceva anche se qualche boccone amaro doveva mandarlo giù. Viveva in una casa popolare con una vecchia zia, ormai immobilizzata, che gli aveva fatto da madre. Qualche puntata ai cavalli, pochi giorni d’estate ai laghi, forse qualche amore passeggero presto dimenticato. La serata finì e loro si sentirono come liberati da un peso. Decisero di rivedersi, di andare il sabato successivo al teatro Manzoni in centro a vedere un’opera di Pirandello. Si separarono quasi allegri.

Lei lo attese nell’androne del teatro con il suo vestito semplice ma che la faceva apparire ancora più giovane. Lui giunse in ritardo. Lo avevano trattenuto in libreria tanto che non si era neppure cambiato d’abito. Si scusò, poi si affrettarono ad entrare in sala. Il sipario era già alzato e qualche occhiataccia li fulminò. Il dramma rappresentato era "Così è se vi pare". Giovanna ammirò la descrizione di quella società borghese del primo novecento. Persone attente alle forme più esteriori ma grette nell’animo, curiose in modo malsano di conoscere i complessi aspetti della vita privata dei protagonisti della piece. Guido, da uomo di buone letture, colse invece la modernità di linguaggio dell'autore e la sua capacità di introspezione dell’animo umano. Lo spettacolo finì e loro si trattennero per strada a discutere e confrontare i rispettivi punti di vista. Lui la accompagnò sotto casa e la salutò sfiorandole la fronte con un bacio.
Si videro più spesso. Qualche passeggiata in centro, qualche film ove non vi fosse violenza, qualche abbraccio furtivo all’ombra di un portone. Adesso il vivere quotidiano sembrava loro meno oppressivo, la differenza di età non pesava più di tanto. Di vivere insieme ne parlarono Lui non se la sentiva di affidare la vecchia zia a qualche istituto, lei aveva dubbi sul perdere i propri spazi di libertà.
Passò un anno. Una sera Guido non venne ad un appuntamento. Giovanna aspettò a lungo per strada mentre un vento gelido le tagliava il viso. Gli telefonò e nessuno rispose. La notte fu lunga a passare. Il giorno successivo telefonò in libreria. Le dissero che era ricoverato in ospedale per una colica renale. Si sentì mancare, restò come paralizzata. Non perse tempo, corse da lui ma dovette aspettare tre ore per poter entrare in ospedale nel primo pomeriggio. Lo trovò in una stanza a sei letti assopito. I suoi capelli sembravano più grigi, il volto pallido era affilato. Lo guardò intensamente, lui sembrò percepire quello sguardo ed aprì gli occhi. Il sorriso era stanco, ora non aveva più dolore e si preoccupava di tranquillizzarla coll’usuale dolce tono di voce. Giovanna di scatto si alzò e cercò il medico di guardia. Quell’uomo alto e ossuto le disse subito che non era grave ma che doveva curarsi seriamente. Dopo Guido le chiese timidamente se potesse occuparsi della zia affidata temporaneamente ad una vicina di casa. Lo assicurò e gli stette vicino in silenzio fino al pomeriggio inoltrato. Tornando verso casa, mentre imperversava una fitta pioggerellina, sentì un vuoto dentro di sé, le mancavano le parole convincenti di Guido, il suo sguardo tranquillo ed affettuoso, la sua comprensione, le sue carezze delicate. No, non poteva continuare così! Era zuppa di pioggia ma non se n’era neppure accorta. Pensò che gli avrebbe parlato, lo avrebbe convinto a vivere insieme, basta con i timori e le remore, più fiducia nel futuro d’ora in poi.
Il giorno dopo entrò in ospedale con passo deciso, entrò in quella stanza disadorna e gli disse con impeto non trattenuto: "senti Guido ti debbo parlare di cose importanti…." Lui la interruppe con un sorriso conciliante e una sfumatura di ironia :" ma Giovanna io ti devo dire la stessa cosa, non ci ho dormito stanotte". Si abbracciarono e non dissero più niente.


UNA GIORNATA D’AUTUNNO

La luce sembrava non arrivare mai. Era un giorno di fine novembre e Guido, Guidotto per gli amici, si era svegliato alle sei del mattino ed aveva subito aperto le persiane per sbirciare il nascere del giorno. Aveva dormito male quella notte. Sogni tormentosi si susseguivano gli uni agli altri e sprazzi della sua vita passata si incrociavano con avvenimenti incredibili. Ora di primo mattino desiderava fortemente la luce…
Non si vedeva quasi nulla, a stento il lampione sulla strada illuminava una fetta di marciapiede e i pochi passanti sembravano fantasmi impauriti. Non c’era nulla di strano, si diceva tra sé Guido, che il giorno non arrivasse, in fondo viveva in un paesino del profondo nord affacciato su un lago splendido. In pieno autunno ed in quel posto era del tutto normale quella nebbiolina fitta e compatta che abbracciava quel lago. Eppure passeggiava nervoso per casa e buttava un occhio distratto sui notiziari diffusi dalla televisione ed a un tratto, verso le sette, sentì suonare il campanello della porta... Strano, pensò, non sia suonato il citofono e poi chi sarà quest’intruso? Eppure quel suono gli fece piacere. Aprì e non vide nessuno... Si affacciò sul ballatoio, le scale erano deserte. Questo destò in lui inquietudine, anche se si rendeva conto che non c’era nulla di così strano. Rimuginò, sono abituato da tanti anni alla solitudine, sono vicino ai settant’anni ma non sono ancora un ferro vecchio, di tanto in tanto vedo ancora qualcuno, e dunque come si spiega quest’ansia? Doveva uscire, vedere gente, entrare nel solito bar ed aspirare quel buon odore di caffè fresco ed avrebbe dimenticato quel buio che l’opprimeva. Erano le otto quando uscì. I lampioni erano spenti ma dal cielo grigio giungeva una luce smorta. Camminava a passo svelto e la gente che incontrava, che pure conosceva da una vita, gli pareva estranea. Saluti frettolosi e distratti si susseguirono fin quando non giunse al bar della piazza del comune. L’aroma del caffè era sparso per l’aria dell’angusto locale e qualche faccia conosciuta gli offrì un sorriso di circostanza. Ma dentro di lui c’era il silenzio. Uscì e camminò a caso per una mezzora. I negozianti alzavano le serrande dei negozi ma in Guido non c’era nessuna curiosità di guardare le vetrine. Ad un tratto, senza quasi accorgersene, si trovò all’interno di un giardino pubblico ed un bambino di non più di tre anni gli porse sorridendo con le braccine distese una grossa palla colorata. 

Il suo primo moto fu di fastidio, raccolse la palla con le mani e la scagliò ad alcuniDopo qualche istante ecco di nuovo una allegra richiesta di gioco. Si spazientì e con un certo sussiego disse: "piccolo ma non ce l’hai mica qualcuno che ti bada?". Una sonora risata alle sue spalle ed una voce dal tono ironico lo raggiunse: "Guidotto, ma sei proprio diventato un cane rabbioso!" 
Si voltò di scatto e vide un signore avanti con gli anni di piccola statura che gli sorrideva beffardo. Passò qualche secondo ed il vecchietto aggiunse: "mi sembri lo smemorato di Collegno, non riconosci i vecchi amici di bagordi, ohei sono Ascanio, l’impiegato delle poste di via Garibaldi…."Un lampo e d’improvviso rivide Ascanio il bassetto, suo inseparabile amico fino a trent’anni prima. Lavorava alle poste, poi si era trasferito a Milano per un incarico superiore. Al paese non era più venuto. Dopo qualche cartolina il silenzio, uno strato di polvere aveva coperto un’amicizia che all’epoca sembrava eterna. Si abbracciarono, si raccontarono i loro guai e le loro poche gioie, qualche lacrima senile scappò via veloce. Ascanio si confidò per primo... Era tornato la sera prima ed aveva preso alloggio in un alberghetto. Da sei mesi pensionato, a Milano non ci si ritrovava. Era anche lui un uomo solo e tutta quella voglia di arrivare, tutto quel frastuono assordante della capitale del nord lo deprimevano. Voleva rivedere il luogo dove era nato, dove era stato giovane, dove pure aveva sofferto per quella donna che era morta da tanto tempo. Guido non poté nascondergli, a quel punto, il suo lasciarsi vivere, le sue rabbie represse, il suo progressivo allontanarsi dagli altri. I due amici tacquero e si scrutarono a vicenda quasi sospettosi. D’improvviso il bassetto guardò furbescamente Guido e " non vorrai mica piantarmi qui, così ci rivediamo tra trent’anni e mi lacrimi di nuovo sulla spalla." L’altro abbassò gli occhi e gli sembrò di non poter rispondere, ma poi, quasi naturalmente, prese l’amico sottobraccio e " stasera per cominciare ti preparo a casa mia quel filetto al pepe che ti piaceva tanto e se non vieni sei una carogna! " Ascanio non gli rispose nemmeno ma il sorriso che gli illuminava il volto diceva tutto. 
Si abbracciarono in silenzio ed ognuno andò per la sua strada. La nebbia si era diradata ed un sole pallido era spuntato tra le nuvole, ma Guido non se ne accorse. 
Tornava fischiettando verso casa.